Cerco rustico al mare
Una chiacchierata con Maurizio Carucci, in cui ci chiediamo se esiste un posto al mondo
“Sto cercando un appoggio al mare”.
La prima chiacchierata di questa serie di racconti appenninici inizia nel modo più inaspettato. Con Maurizio che dalla sua Cascina Barbàn, nella punta occidentale degli Appennini, guida in direzione sud, verso la costa ligure.
« Sto cercando un appoggio al mare, una casa da mettere a posto. Il mare chiama forte, ho la fortuna di vivere in uno spazio selvatico, estremamente montano, ma in un'ora di macchina sono davanti al mar ligure e di questo dualismo ne approfitto un po', ne abuso quasi. E quindi sto andando in solitaria giù verso il mare a mettere dei cartelli CERCO RUDERE, cerco rustico, sai questa cosa qua un po' romantica »
Ed è subito illuminante, perché è chiaro di cosa stiamo per parlare: di luoghi, di spostamenti, di bisogni e soluzioni temporanee, di comunità appenniniche e del rapporto con la novità. Per i pochi di voi che non lo conoscono, Maurizio, amico di lunga data di Happennino, è un contadino, un cantautore, il cantante degli Ex-Otago, uno scrittore, un ragazzo del quartiere popolare Marassi, a Genova, che a un certo punto si è trasferito in una cascina nell’Appennino piemontese. Uno di città, un uomo di campagna. Un essere appenninico multiforme, che un giorno fa un pezzo con Fabri Fibra, un altro mi spiega cosa significa scassare una vigna. Nella sua storia, ci sono risposte pratiche ad alcune delle domande più importanti che noi abitanti dell’entroterra ci facciamo in continuazione.






« Devo dire che sto patendo sempre un po' di più in gennaio e febbraio in cascina perché sono mesi lunghissimi da noi, c'è una pressione della fauna selvatica fortissima, quest’anno la volpe è riuscita a entrare nel pollaio e ci ha portato via tutte le galline e le anatre e il lupo ci ha ucciso le tre pecore che avevamo.
Sono mesi in cui bruci della gran legna e basta, non si gode più dell'inverno. E allora parti dalla cascina, immaginati nebbiolina, pioggerella, e dopo un’ora di auto arrivi a Sori e sei a 11 gradi, c’è il sole, vai in spiaggia, ti mangi un pezzo di farinata, te ne vai sugli scogli, leggi, capisci? Questa possibilità aiuta veramente tanto, c'è un'esplosione climatica e paesaggistica »
Una mobilità fisica e culturale che aiuta a colmare le lacune ambientali, stagionali - soprattutto in termini di socialità e proposta culturale - che affliggono cronicamente i nostri luoghi. Allargare gli orizzonti concettuali e fisici del nostro “posto” è forse la via per capire e vivere fino in fondo i nostri luoghi?
E allora, dato che Maurizio ha da qualche mese fatto il suo esordio letterario con un bel libro autobiografico che si intitola “Non esiste un posto al mondo”, mi sembra inevitabile fargli notare che si sta andando a cercare un nuovo posto al mare, un altro ancora. Forse un posto al mondo esiste nel momento in cui cambiamo il modo di pensare il posto?
« Non esiste secondo me, non esiste ma bisogna anche un po’ metterci ai ripari per non diventare delle creature abominevoli, bisogna trovare delle strade per mantenerci elastici, non solo i muscoli ma anche la mente e lo spirito. Viaggiare è uno strumento potentissimo per mantenere elastici. E comunque non è ai posti che manca qualcosa, i mancanti siamo noi e su questa cosa non c'è niente da fare. Dovremmo metterci il cuore in pace, poi c'è chi colma questi buchi giganti che abbiamo comprando tutti i giorni cose e chi prova a percorrere altre vie. Però effettivamente non sono solo i posti a essere animati dalle persone, ma loro stessi animano le persone e sono in grado di farci dimenticare per un istante questo nostro essere sospesi...
E poi giocare con l’alternanza, con le diversità, contemplare gli opposti, può aiutarci a godere pienamente della vita, i cinesi anzi, i taoisti ce lo insegnano con il Tao, nella parte nera c’è una piccola parte bianca e viceversa, forse questa complessità e apparente contraddizione può esserci d’aiuto in questi tempi totalitari. Oltretutto come scrive Levi Strauss, gli esseri umani tendono a cristallizzarsi, e tendono al monopensiero, a produrre civiltà di massa, come le colture di barbabietole.
Facciamo così, allora: non esiste un posto al mondo, ne esistono molti ».
Questa ce la salviamo, come aforisma che sintetizza un concetto enorme. Sono anni che ci immaginiamo, e come noi tanti altri, un Appennino espanso, fatto di paesi che ragionano insieme, di territori che allargano le staccionate immaginarie dei confini, di cittadini che ampliano in direzioni diverse il loro modo di abitare. I luoghi e le comunità di entroterra, descritti bene da Sarah Gainsforth in questo articolo per Il Tascabile1, soffrono di una solitudine cronica e profonda e hanno bisogno di restare collegati in modi creativi, tra di loro e con il mondo.
A queste forme di isolamento - che non sono esclusive dell’Appennino ma, come racconta nel suo libro, si possono provare anche in città - Maurizio ha da sempre risposto in maniera molto pratica. È proprio così che è iniziata la sua vita da campagnolo.
« Nel 2012 con Martina abbiamo iniziato a comprare pezzo per pezzo questa borgata abbandonata da una quarantina d'anni. È iniziato tutto con una grande dose di incoscienza, vedevamo in questo posto qualcosa di benigno e quando questo accade non si può non tenerne conto. Così è nata Cascina Barbàn. All’inizio eravamo in due, ora siamo cresciuti e da poche settimane siamo diventati il Collettivo Barbàn. Stiamo cercando di far girare il progetto verso un lido più culturale, un centro di ricerca, un porto di montagna, un posto in cui trovare domande, dove approfondire alcuni temi che ci stanno a cuore. Ultimamente, stiamo esplorando la possibilità di organizzare seminari e ritiri legati alla spiritualità. A legare tutto c’è il culto della natura e dei prodotti naturali, che sta sopra ogni cosa e in ogni nostra azione anche oltre alla pratica agricola ».


Il Collettivo Barbàn è quello che di rado accade nei paesi appenninici, una perturbazione nella Forza, un oggetto nuovo, diverso da quello che normalmente si faceva prima.
L’abitudine alla novità, non come evento straordinario, ma come pratica continua, comune e quotidiana, è un altro dei bisogni dell’Appennino.
Non è facile, perché le comunità di montagna non amano troppo le novità, esiste una forma di resistenza radicata. Parafrasando le parole di Giovanni Lindo Ferretti in un’intervista del 20112, gli abitanti dell’Appennino si sono mescolati così tanto con la storia e la geografia delle loro montagne, che hanno finito per assomigliargli.
Lo vediamo anche noi di Happennino, che pure siamo “nativi” e quindi parte integrante della comunità da sempre, che è necessario dedicare molte energie per coinvolgere i nostri conterranei. Figuriamoci un collettivo di “forestieri” provenienti dalla città, che fanno agricoltura naturale ed eventi culturali.
« È stato un percorso in salita, in un territorio difficilissimo. Siamo partiti con una dose abbastanza insopportabile di idealismo. Avevamo idealizzato tutto, il paese, il senso della comunità. Facevamo riunioni su riunioni cercando nelle pratiche di comunità, di fare rete. Facevamo ogni cosa cercando di coinvolgere tutti, da buoni cittadini, perché anche se abitavo già da tanto tempo in campagna, in un'altra campagna, comunque avevo la formazione dell'urbano. Beh ci siamo schiantati mille volte. Una cosa che è successa in maniera molto chiara è che tutto quello che abbiamo fatto nessuno ce l'ha mai riconosciuto, ma in tantissimi l'hanno replicato. Questa è una cosa che da una parte mi fa soffrire, ma dall’altra sono sicuro che in tanti dentro di loro diranno “ca**o però i ragazzi di Cascina Barbàn ci hanno visto lungo, hanno aperto mille strade”».
Dopo 12 anni abbiamo capito che forse non è il caso di essere sempre così attenti nel coinvolgere, da queste parti paga molto chi si fa i ca**i suoi.
Chi si fa gli affari suoi viene percepito come qualcuno di serio e che fa le cose, quindi noi nostro malgrado e con una certa sofferenza abbiamo un po’ adottato questo approccio, fare concretamente per il territorio».
Scherziamo un po’ sul fatto che dopo queste parole possiamo dire che Maurizio ha raggiunto il livello finale, si è appenninizzato del tutto.
La strategia del fare senza dire troppo, che è alla base della secolare identità mesta della gente appenninica, in questo caso risponde in modo pragmatico al bisogno non solo di fare, ma anche di far arrivare il pensiero che sta dietro le azioni, senza logorarsi. I risultati e le gratificazioni poi arrivano.
« Boscadrà, per esempio, è nata come una festa di rivalsa e rivoluzione di una borgata abbandonata dalla modernità, in cui si torna a fare il vino, ma poi si è trasformata in un festival di territorio simile al vostro, fatto di eventi su più giorni che si compiono in altri posti coinvolgendo molte realtà locali. Da tre anni mettiamo un tetto di mille persone alle prevendite, per una questione ecologica (altro aspetto che non ha mai aiutato l’integrazione è il fatto che siamo schierati su molti micro temi locali, sempre comunque a favore della conservazione).
È difficile far percepire il proprio valore. Nel vostro caso, per esempio, non mi pare che sia riconosciuto a dovere il fatto che Happennino non è un festival e basta, è un progetto di ristrutturazione sociale e culturale di un territorio d’Italia. Non vi dico che dovrebbero fargli un monumento, però non so come dire, francamente non sono sicuro che tutti abbiano capito.
Comunque, continuiamo a creare in qualche modo bellezza, perché poi le persone sono come le api, vanno dietro al miele e io per primo. Il miele in questo caso è la bellezza, dobbiamo solo continuare a portare la scoperta, la possibilità di far scoprire qualcosa a qualcuno, aprire porte e finestre».
https://www.iltascabile.com/linguaggi/litalia-svuotata/
https://www.avvenire.it/agora/pagine/appennino-storia-rupi-e-monti-sacri_201104011312330870000